ATTUALITA'


La persuasione che non persuade

Pierrette Lavanchy presenta uno studio sulla retorica presidenziale





La persuasione che non persuade
 
Pierrette Lavanchy
 
 

The Unpersuaded. Who listens to a President? By Ezra Klein. The New Yorker, March 19, 2012

«Il potere della Presidenza è il potere di persuadere». Questo motto del politologo Richard Neustadt sembra essere stato condiviso da tutti i  Presidenti degli Stati Uniti. Eppure, guardando ai fatti, ci si chiede fino a che punto l’affermazione corrisponda al vero. Per esempio, a fine agosto 2011, il Presidente Obama fece un discorso importante per convincere il Congresso a votare il nuovo American Jobs Act. Il discorso fu molto seguito e applaudito ma l’Act non passò. Dei rapporti tra potere di persuadere e potere di governare si occupa l’articolo di Ezra Klein sul New Yorker del 19 marzo 2012, intitolato The Unpersuaded. Who listens to a President?

George Edwards, studioso di retorica presidenziale (direttore del Center for Presidential Studies alla Texas A & M University), aveva rilevato fin dal 1993 che i recensori dei Presidenti si comportavano come critici letterari e non fornivano prove delle loro affermazioni. Passò in rassegna le vicende comunicative dei Presidenti. Mise in evidenza che Reagan, considerato il migliore comunicatore, perse consensi dall’inizio alla fine del mandato, e solo in retrospettiva venne idealizzato. Franklin Delano  Roosevelt, con i suoi fireside chats, chiacchiere davanti al focolare, non guadagnò mai più dell’1% di consensi, e non convinse gli USA a entrare in guerra se non dopo Pearl Harbour. Quanto a Bill Clinton, ebbe un’intensa attività comunicativa, ma la sua iniziativa per la Sanità fallì a dispetto di ogni promozione. Nondimeno sostenne che avrebbe dovuto intensificare lo sforzo comunicativo.

Le stesse considerazioni valgono anche per George W. Bush (sessanta discorsi in sessanta giorni all’inizio del suo mandato) e per Barack Obama. Tutto porta a pensare che i Presidenti sopravvalutino l’efficacia dei loro discorsi. Perché? Forse perché è con i discorsi che diventano Presidenti! Ma non è la stessa cosa essere Presidenti ed essere in corsa per la Presidenza.

Le cose diventano più chiare quando i Presidenti vengono visti come leader del loro partito. Quando Bush voleva intensificare le missioni spaziali, argomento bipartisan, i democratici fecero obiezioni non per la questione in sé ma perché la proposta veniva da lui. Per un meccanismo che in Italia conosciamo fin troppo bene, non è stato l’oggetto dell’iniziativa a essere presa in considerazione, ma la sua origine.

Frances Lee, altra scienziata, professore all’Università di Maryland, sostiene che il potere di persuasione dei Presidenti è grande, ma all’interno del proprio partito. Se per una questione qualsiasi il Presidente si astiene dal  manifestare la propria opinione, i legislatori seguono la linea del proprio partito. Se il Presidente si esprime, la polarizzazione tra partiti si accentua. Le interpretazioni suggerite sono due. O i membri dei partiti lasciano la loro opinione del Presidente influenzare la loro valutazione dei problemi. Oppure  scelgono di votare in funzione del vantaggio o dello svantaggio che il voto arreca al proprio partito. Un esempio lampante viene fornito dalla questione della Sicurezza Sociale, e della sua eventuale privatizzazione: a distanza di quasi vent’anni, Obama riprende una proposta che era stata lanciata dai Repubblicani nel 1993 in alternativa al progetto di Clinton per lo Health Care, e i Repubblicani, che pure l’avevano applicata in singoli Stati, la bocciano. Frances Lee ritiene che la persuasione del Presidente può avere addirittura effetti paradossali, antipersuasivi, sul partito di opposizione, perché per passare una qualsiasi legge c’è sempre bisogno dell’aiuto di deputati dell’opposizione, i cosiddetti franchi tiratori. Allora da dove viene il successo dei Presidenti?

La risposta è semplice: da come va l’economia. F. D. Roosevelt nel 1934, anno in cui l’economia era in forte crescita, guadagnò seggi nelle elezioni di midterm, unico di due presidenti nel XX secolo. Ma perse nel 1938 in periodo recessivo. Reagan perse consensi nel midterm del 1982, quando l’economia andava male poi ci fu una ripresa economica e Reagan vinse l’elezione per il secondo mandato nel 1984. Non avrebbe tanto istigato l’espansione economica attribuita alla reaganomics, quanto ne avrebbe beneficiato, portato in alto dal trend ascendente.

Se non serve la persuasione, qual è l’alternativa per un Presidente? Troppa aggressività retorica non è utile, può anzi essere dannosa. Ma la passività è peggio. Ci sono esempi di “private leadership”, cioè iniziative che un Presidente prende, come un taglio delle tasse sul monte salari (payroll-tax cut), senza averne parlato prima, per evitare condizionamenti di vario genere. Ma molte proposte che privatamente verrebbero condivise sono rifiutate al momento del voto.

Il sistema americano permette che l’esecutivo e il legislativo siano governati da partiti diversi, ma questo funziona solo se i partiti comprendono correnti diversificate e hanno una disciplina flessibile. Invece da un po’ di tempo sono diventati molto rigidi. E così, conclude l’articolo, l’opposizione ha sia l’incentivo, sia il potere di resistere al Presidente.

 





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